PALIMPSZESZT
17. szám --[ címlap | impresszum | keresés | mutató | tartalom ]

ERZSÉBET KIRÁLY:
Peccato e libero arbitrio: Dante nel Paradiso Terrestre

Il Paradiso Terrestre, come è stato rilevato da molti illustri dantisti,[1] è un punto d'incontro di motivi ed allegorie chiave della Commedia. Punto d'arrivo e punto di partenza, creato direttamente da Dio, destinato a rendere felice l'uomo, e a presentare le forme più perfette della materia (congiunta in gradi diversi con l'anima), l'Eden è punto privilegiato nella vicenda di Dante individuo e Dante figura dell'umanità.

Il fulcro delle questioni li affrontate è il peccato, e i concetti ad esso connessi: innocenza, rettitudine-giustizia, Redenzione, libero arbitrio, falso e vero bene. In questa sede prende corpo anche una delle formulazioni importanti della "ragion poetica" del poema sacro.

Tra le allegorie evocate e perciò presenti sotto varie forme esaminerò in primo luogo quella del Veglio di Creta[2] (descritta nel If XIV) e le sue implicazioni riguardanti altri motivi pure presenti o latenti, tra cui spiccano per importanza il discorso di Marco Lombardo (Pg XVI), la visione della "femmina balba" (Pg XIX), ed alcuni motivi legati a Virgilio e a Stazio; infine, sarà inevitabile fare alcune osservazioni sul commentatissimo e diffuso stilnovismo della "divina foresta".

La figura ctonia del Veglio di Creta, pur nella sua qualità remota e nascosta, rappresenta i tempi tra loro ben distinti della storia umana, soggetta a varia esegesi sia storica, sia teologico-morale, ma sempre intesa come immagine di decadimento e di corruzione.[3] Dante, in base alle sue letture classiche, teologiche ed enciclopediche, rende reale la figura-visione veterotestamentale: essa, nella sua qualità storica, è creazione dell'uomo artifex imperfectus, a parte la testa aurea di cui parlerò più tardi. Al significato di "deterioramento" Dante aggiunge il motivo del pianto che sgorga dalle parti rotte, dando origine ai fiumi infernali.

L'acqua, elemento mobile, servirà anche da elemento connettivo. Nel XIV dell'Inferno la domanda di Dante e la risposta di Virgilio, riguardanti il Leté, stabiliscono il primo legame tra la figura del Veglio e il Paradiso Terrestre, e non solo come dato idrografico dell'oltretomba dantesco. Virgilio tocca subito la funzione purificatrice del fiume, alludendo alla penitenza e alla remissione dei peccati con sorprendente precisione teologica: "là dove vanno l'anime a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa" (If XIV, 136-138). E quando il lettore vedrà con gli occhi di Dante il "bel fiume" paradisiaco dalla trasparenza cristallina, la memoria andrà indietro, notando il forte contrasto con le acque infernali: "la livida palude", "l'onda bruna", "l'acqua ... buia assai più che persa", "la lorda pozza", le "sucide onde", il "bollor vermiglio", il "tristo ruscel".

Le altre informazioni "infernali" sul Veglio, qui nell'Eden di grande importanza, vengono anch'esse da Virgilio, quando parla del luogo e del suo primo signore, Kronos-Saturno.

La prima notizia riguardante Creta è: "sotto 'l cui rege fu già il mondo casto" (ibid. 96). Casto, cioè innocente, come qui nell'Eden dirà esplicitamente anche Matelda la quale, a sua volta, crea una connessione inversa: "Qui fu innocente l'umana radice" (Pg XXVIII, 142).

Il monte Ida, nelle cui viscere si trova il "gran veglio", "già fu lieta / d'acqua e di fronde" (If XIV, 97-98), qualità edeniche anch'esse; mentre "or è deserta come cosa vieta" (99), spoglia come "la pianta dispogliata" (Pg XXXII, 38), intorno a cui le sette Virtù mormorano "Adamo". Il monte deserto è "cosa vieta", veta come il vetus Adam, per il cui peccato la pianta edenica perdette fronda e fiore.

Kronos-Saturno è signore della mitica età dell'oro, espressa con la testa aurea della figura del Veglio, la sola parte che non presenta rottura. L'idea dell'integrità si associa alla qualità incorruttibile e all'innocenza primordiale delle cose create direttamente da Dio, artifex perfectus. Il "rege" menzionato nel canto infernale verrà rievocato, com'é naturale, nel cielo di cui esso è signore: "caro duce / sotto cui giacque ogne malizia morta" (Pd XXI, 26-27)). La definizione dell'innocenza avviene per negazione.

Il numero del canto paradisiaco (XXI) corrisponde a quello purgatoriale in cui l'anima di Stazio, ormai libera dal peccato, "surge": l'uso del verbo è insistente, ed è accompagnato ad accenni chiaramente evangelici e cristologici, sottolineando con forza il fatto che la "resurrezione" dell'anima fu resa possibile solo per la morte e resurrezione del Dio fatto uomo (con inevitabili implicazioni anselmiane sulla satisfactio vicaria[4] che verrà trattata per esteso da Beatrice in Pd VII, 85-122).

Nel XXI del Purgatorio avviene la grande agnitio, piena di affetto e di venerazione, tra Stazio e Virgilio. Quest'ultimo, ancor sconosciuto per il poeta più giovane, viene evocato come poeta dell'Eneide, "mamma" per il divenir poeta di Stazio. Nel canto successivo colui che avrà la grande sorpresa sarà invece Virgilio: tramite la rivelazione di Stazio avrà la agnitio di una qualità, a lui fino ad allora ignota, della propria parola. La guida di Stazio al cristianesimo fu la profezia della IVa ecloga. Il passo citato, come è noto, si riferisce ancora all'aurea aetas, non tanto a quella che fu, ma a quella che tornerà: "Secol si rinova: / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenie scende dal ciel nova" (Pg XXII, 70-72).

Tra le due opere virgiliane, evocate da Stazio l'una come alto insegnamento poetico, l'altra come illuminazione in senso cristiano, viene pronunciato uno di quegli adynata della Commedia che rappresentano ciascuno un impossibile non solo retorico-poetico, ma anche teologico.

Il primo "impossibile" venne da Francesca nel Vo dell'Inferno: "Se fosse amico il re de l'universo, / noi pregheremmo lui per la tua pace" (91-92), come espressione per iperbole di cortesia in un luogo che è per eccellenza dell'amore non retto, "quanto che da buon perfetto tort'è / per sorte", e quindi ne segue "morte" in senso cavalcantiano.

Ora, l'adynaton di Stazio in Pg XXI suona cosi: "E pe' esser vivuto di là quando / visse Virgilio, assentirei un sole / più che non deggio al mio uscir di bando" (100-102). Queste parole sono testimonianze di amore giusto, quantomai a posto nel Purgatorio, e sono formulate da un poeta, e per di più cristiano. La forza dell'affetto per chi in ambedue le qualità gli era fonte e lume, non può esprimersi che per un impossibile, "riferito a ciò che un'anima monda più teme" (Padoan).[5]

Si badi bene che il valore di Virgilio-parola va ben oltre a quello accennato da Matelda nel suo corollario dato "per grazia", cioè per cortesia. Lei infatti conferisce dimensione scritturale e concretezza sensibile (essendo il Paradiso Terrestre una cosa tra le più vere e reali) agli scritti non solo di Virgilio: tutti "quelli ch'anticamente poetaro / l'età de l'oro e suo stato felice, / forse in Parnaso questo loco sognaro" (Pg XXVIII, 138-140). Le parole di coloro cui la verità apparve quasi per sogno, vengono riferite ad una realtà scritturale si, ma statica. Matelda cita alcune connotazioni stereotipe, ricorrenti in vari autori antichi: innocenza, primavera eterna, "ogne frutto", nettare che corre nei fiumi.[6]

Le parole di Virgilio invece, avendo non solo convertito in vaticinio "il primo tempo umano" ma divenendo mezzo di salvezza per uno che già stava avvertendo i segni di una renovatio, ricevono una dimensione escatologica, che investe ormai non solo l'individuo "fatto" cristiano da Dante, ma si estende alla comunità cristiana del medioevo perché conforme alla concezione storica cristiana e ad una rinata, fervida attesa di renovatio. Sarà questo uno di quei meriti per cui Dante non ritiene indegno regalare al suo caro maestro e duce l'entrata nel Paradiso Terrestre.

Non piccola parte di tale merito è la diretta menzione della giustizia[7] come caratteristica saliente di quella prima età. Alla questione si tornerà ancora.

Dante arriva qui come cristiano redento e theologus si, ma la cui virtù conoscitiva è insita nel suo essere poeta. Tale qualità conoscitiva è stata in certa misura attribuita anche ai poeti antichi non cristiani, ma in quelle parole di Matelda è sottintesa una ben altra dimensione, valida per Dante stesso: cosa mai non potrà un poeta cristiano, già beneficiato dagli astri, arricchito di esperienza, di dottrina e dall'alto magistero virgiliano, e in più, favorito da particolare grazia divina? Tale dimensione è ancor latente, ma c'è.

Per arrivare alle ulteriori implicazioni che la figura del Veglio comporta, torniamo al suo "luogo". Sul monte Ida - e Virgilio l'ha detto - nacque Zeus-Giove, il cui cielo nella simbologia cristiana e dantesca è espressione della giustizia divina, e il cui sacro uccello in quel cielo esprime la sacralità dell'esercizio e della dilezione della giustizia in terra, confermando la sacralità dell'istituzione cui tale esercizio è affidato per volontà di Dio.

Nel Paradiso Terrestre "l'uccel di Giove" apparirà nella grandiosa "sacra rappresentazione" del canto XXXIIo, reiterando con grande forza ciò che Marco Lombardo disse sul deterioramento di quelle istituzioni sacre che dovrebbero "freno porre" alle immoderate e disordinate voglie umane (Pg XVI, 94-114), e agire giustamente, affinché la Redenzione possa fruttare continuamente a beneficio dell'uomo inteso come collettività. Sarà importante la collocazione del grande scenario tra l'avvenuta purificazione (Leté) e la preparazione al "trasumanar" (Eunoé) di Dante.

Ma ora, quando Dante entra nella foresta edenica per asseggiarne la letizia già destinata ad Adamo, e per ricevere, in compagnia dei suoi poeti, i primi lumi da Matelda intorno alle qualità del luogo, la giustizia si presenta come rectitudo (drittura in Dante) in senso agostiniano ed anselmiano:[8] a significare quindi il naturale stato delle cose in piena corrispondenza con l'intento di Chi le ha create. La rettitudine, lo stato di giustizia originaria per l'uomo, creato a similitudine di Dio in quanto in possesso d'intelletto, comporta maggiore responsabilità, siccome - con le parole di Marco Lombardo - "lume v'é dato a bene e a malizia, / e libero voler" (Pg XVI, 75-76).

Intelletto e libero arbitrio sono doni divini inaliebili: Adamo, avendone fatto cattivo uso, si era alienato da Dio; il peccato lo rese "dissimilis Deo, inde dissimilis et sibi"[9] : non perdette il dono, bensi la propria originale giustizia, e il libero uso della volontà. La "schiavitù del peccato" significa non saper e non poter volere con sufficiente forza ciò che secondo rettitudine é bene volere. Libertà vuol dire volere quel che è bene volere.[10]

In tale senso va intesa l'affermazione di Marco Lombardo: "A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete" (ivi, 79-80). La Redenzione ha restituito all'uomo la libertà di agire secondo bene, purché - e qui sta la libertà - voglia agire secondo bene (potendo scegliere anche di agire secondo malizia, o secondo appetito non regolato).

In Dante è sempre fortissimo l'impegno di definire la responsabilità dell'uomo, creatura dotata di ragione. É notissima l'affermazione fatta nella Vita nuova, secondo cui la virtù particolare emanante da Beatrice agiva da forza regolatrice dell'amore-passione, non permettendo mai di trascurare il consiglio della ragione. Si tratta certamente di uno dei punti cardinali del conflitto Cavalcanti-Dante:la dantologia sembra aver accettato il suggerimento di De Robertis secondo cui la canzone Donna me prega è da considerarsi una risposta polemica a Vita nuova.[11] E non sarà certo casuale che "l'onnipresenza" cavalcantiana, cosi ampiamente documentata dal Contini e da altri,[12] si faccia sentire con particolare forza là dove aleggia, o si concretizza, la presenza di Beatrice (quanto alla lingua e alla poesia, se ne riparlerà). E qui è possibile solo accennare al Convivio, al De vulgari, alla Monarchia, dove la questione della responsabilità individuale, civile, istituzionale dell'uomo viene ampiamente trattata.

La responsabilità riguarda la giustezza delle idee, delle scelte e delle azioni, ed è basata sulla ragione che nel senso etico è recta ratio, mentre nel senso appetitivo è l'inesauribile sete di sapere. Dante avvertiva i pericoli di quest'ultima, trattandola nel Convivio in forma di tesi di carattere dubitativo: è o non è associabile la sete del sapere alla cupidità dei beni terreni? La "disputa" arriva alla conclusione che il sapere in se stesso, e la volontà tesa ad acquistarlo ed a fruirlo non costituiscono peccato.[13] L'anima beata di Adamo nel XXVIo del Paradiso (il numero corrisponde, come è già stato avvertito, a quello del canto infernale di Ulisse) confermerà tale tesi: "Or, figliuol mio, non il gustar del legno / fu per sè la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno." (115-117).

Ora, essendo la ragione di importanza basilare nel giusto controllo dell'amore, nonché nel "drizzarlo" a buon fine, è ben comprensibile che Dante rivolga, nel XVII del Purgatorio, l'ansiosa domanda al suo maestro: "s'amore è di fuori a noi offerto / e l'anima non va con l'altro piede, / se dritta o torta van, non è suo merto" (43-45). Il buon Virgilio premette: "quanto ragion qui vede, / dir ti poss'io" (46-47) intorno alla "libertate" presente "in ogne forma sustanzial, che setta / è da matera ed è con lei unita", cioè nell'anima umana; e stabilisce che "innata v'è la virtù che consiglia, / e de l'assenso de' tener la soglia" (62-63). I saggi antichi "s'accorser d'esta innata libertate: / però moralità lasciaro al mondo" (68-69). Virgilio sa però che ciò non basta ad un cristiano: "da indi in là t'aspetta / pur a Beatrice, ch'è opra di fede" (47-48).

Risulta pure che il Maestro conosce - citando Beatrice come fonte - il termine cristiano per quell'innata virtù: libero arbitrio. La conoscenza ormai ci sorprende poco, avendo più volte sentito Virgilio usare concetti, termini e moniti propri del cristianesimo. Esaminati da vicino, tali concetti ecc., quanto alla loro sostanza, sono attingibili anche da recta ratio, purché essa operi al suo più alto grado, arrivando almeno agli "umbriferi prefazi" della vera intellezione. Tale alta qualità venne conferita a Virgilio ad opera di grazia, certamente comunicata da Beatrice, anche se né Dante, né Virgilio dicono il come: ma certo per illuminazione, operata in virtù al suo essere eletto per guida a Dante. Tale investitura, la pronta ed amorosa accettazione, il sobbarcarsi con pieno impegno all'esecuzione elevano la mente analitica, la retta ragione e la stessa parola poetica alla propria entelekheia (Petrocchi),[14] e insieme alla conoscenza concettuale degli eskhata cristiani.

Cosi avviene che la ragione esaltata in tal modo non è subito congedata, non è fatta sparire dalla scena quando è arrivata al proprio limite. Tra l'esaurirsi delle proprie possibilità di essere guida, e l'apparizione della nuova guida, Virgilio può godere le bellezze dell'Eden, anzi gli è dato di vedere la prima scena della processione, preludio all'arrivo di Beatrice. Colui che celebrò la giustizia originale, ben merita di vederne la realtà -, e anche il preludio, i "documenti" (i libri sacri personificati) e la luce preannunciatrice di quella fede che lui non conosceva.[15]

Intanto è giusto e degno annunciare al discepolo, al protetto, al "figlio" che il momento della sua libertà è arrivato:


"Non aspettar mio dir più né mio cenno:
libero, sano e dritto è il tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch'io te sovra te corono e mitrio." (Pg XXVIII, 139-142)

La libertà - c'insegnano Agostino e Anselmo - non è dei sensi, non è della ragione, ma della volontà[16] . Come è stato già detto, la potestà di peccare e di non peccare permane nell'uomo come bene inalienabile continuamente posseduto anche dopo aver commesso il peccato. Ma la volontà come scelta, decisione basata sul giudizio, attiva ed operante di volta in volta, l'arbitrio appunto, s'era incrinato e indebolito in conseguenza del peccato. La ragione vede quel che è buono, e "ben vuol" raggiungerlo, ma essa volontà non è di pari forza alla ragione. "Sono ben pronto a volere il bene, ma non sono capace di operarlo. Infatti non opero il bene che voglio, ma il male che non voglio." (Rom. 7, 18-19).

É la condizione in cui Dante si trovava sull'erta del "dilettoso monte".[17] Ora la situazione è profondamente cambiata: la volontà nella sua qualità di arbitrio, potestà di decidere e di operare il bene, è divenuta pari alla ragione che vede il bene. La divina foresta, in contrapposizione polarizzata alla selva oscura, vede entrare Dante un alter Adam che ha riconquistato lo stato dell'innocenza originaria, quanto all'equilibrio di ragione e volontà.

Quest'ultima è dunque risanata. Quanto alla ragione, essa possiede la qualità che mira al bene secondo moralità e rettitudine (drittura), ma in senso cristiano: illuminata dalla Redenzione, arricchita dallo studio ("dottrina"), dalla sua iniziazione come poeta (nel Limbo, negli incontri con i poeti tra cui Stazio, "saggio" come Virgilio), e dal viaggio stesso. Ma questa ragione dovrà ancora raggiungere, per particolare grazia, la propria entelekheia nel Paradiso.

Il sapere, stando a Socrate, comporta la virtù. Ma la tesi venne corretta già da Aristotele: l'instabilità, lo squilibrio della virtù non deriva dall'ignoranza (EN VII, 2: 1145b). É la volontà che conta. E tale volontà, nel cristiano, richiede il già menzionato "soggiacere" alla grazia che illumina e aiuta per seguire giustizia; per Dante, essa grazia viene anche amplificata come dono gratuito. Ad opera della grazia avvenne l'epifania di Virgilio, prima "fioco" siccome per lungo tempo smarrito (come la diritta via); il suo valore sapienziale, che potenzia la mente e fortifica la virtù, era immerso in "lungo silenzio".

Dante "soggiace" alla guida-messo che gli trasmette la Grazia, e che gli s'impone anche coi suoi propri valori - virtù cardinali, retta ragione, eloquenza e cortesia - per un tempo indeboliti in Dante, non già come sapere, ma come forze che agiscono sul retto volere.

Avendo accettato la guida, Dante ha messo in opera la propria libertà. Essa, è vero, è talvolta affetta da "viltade" -, particolarmente davanti alle porte di Dite. Anche là la Grazia venne in aiuto alla Ragione. Un'altra parabola sulla insufficienza in sé della recta ratio veniva offerta al viandante in forma di sogno sulla "femmina balba" (Pg XIX), metaforizzando un altro pericolo - l'inganno - per il "libero voler". Il sogno riceverà pieno senso tramite le parole di Beatrice, su cui si tornerà.

Passata la fase di "viltade", che sarebbe la "poca fede", l'inganno mostra quel suo aspetto che è cruciale per Dante. Nel XXVI dell'Inferno, vedendo le fiamme della bolgia da lontano, Dante si dolse, e ricordandole, si "riduole": aveva percepito il senso della scena, ed è arrivato ad una decisione.

La questione degli appetiti intellettivi viene qui affrontata nei termini del freno e della guida, parole chiave per la responsabilità comunitaria delle istituzioni sacralizzate (Chiesa e Impero). Qui, nell'If XXVI, la responsabilità non è istituzionalizzata bensi personalizzata: "quando drizzo la mente a ciò che vidi, / e più lo 'ngegno affreno che non soglio, / perché non corra ove virtù nol guidi, / si che, se stella bona o miglior cosa / m'ha dato il ben, ch'io stesso nol m'invidi" (20-24).

"Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine, / ma per larghezza di grazie divine /.../ questi fu tal ne la sua vita nova / virtualmente, ch'ogne abito destro / fatto avrebbe in lui mirabil prova" (Pg XXX, 109-117) - soneranno le severe parole di Beatrice, reiterando "le stelle bone e miglior cosa" dell'If XXVI ma ampliando ed approfondendo la questione, andando ben oltre alla virtuosa decisione "infernale" di Dante - anche se con "soglio" egli alludeva ad un habitus di controllare l'intelletto: Beatrice però parla non di uno di essi abiti ma di tutti, e nei termini di una virtuale positività.

Volontà sana, arbitrio libero: Dante entra nella divina foresta in compagnia dei suoi saggi si, ma non tenendosi dietro con riverenza come ha fatto finora. Cammina a suo piacere, davanti a loro. Invertendo il "cammino" sulla figura del Veglio, Dante rappresenta, in relazione ai suoi poeti, una continuità che non richiama ormai il deterioramento, bensi il rinnovamento. Il corso storico deve arrivare alla renovatio un'altra volta, oltre a quella fondamentale già recata dalla venuta di Cristo - vaticinata da Virgilio e vissuta da Stazio -, e di quell'altra, ancor ventura, Dante vuole - e per la sua elezione, deve - essere conoscitore, annunciatore, preparatore.

E perciò non solo la volontà, ma anche la ragione, l'intelletto saranno da perfezionarsi e da potenziarsi affinché Dante diventi, non solo "virtualmente" ma realmente, atto ad adempiere tanto messaggio. Premessa necessaria, anzi imperativa ne è la propria personale renovatio: la solenne e pubblica (e davanti a quale pubblico!) accusatio, la contrizione, la confessione, il pentimento[18] - l'umiliazione, operata da Beatrice, del rimanente orgoglio dell'intelletto, affinché possa cominciare il viaggio verso l'intellezione.

Le parole di Virgilio su "opra di fede", e la dichiarazione della propria insufficienza alle soglie dell'Eden già alludono alla virtù conoscitiva della fede, al "credo ut intelligam" anselmiano. (Non a caso San Pietro chiamerà "moneta" la fede: per essa "si compera" la conoscenza delle ultime verità.) Sulla via della "fides quaerens intellectum"[19] la guida sarà Beatrice. Intanto, "lo tuo piacere ormai prendi per duce" (Pg XXVIII, 131): a Dante, il "figlio" coronato e mitrato, sovrano della propria volontà, sarà offerta la magnifica parentesi dell'Eden, "mentre che vegnan lieti li occhi belli / che, lagrimando, a te venir mi fenno" (136-137). Virgilio collega le due epifanie di Beatrice, significata per gli occhi, ricordandone le lagrime e auspicandone la letizia.

***

All'ingresso nella foresta edenica ad un tratto cadono gli strereotipi che finora accompagnavano l'incontro con un luogo nuovo: la tensione e l'urto con scene, fenomeni e personaggi; reazioni fisiche e psicologiche a vari livelli, talvolta violente; l'interrogazione della guida, la ricerca di orientamento, appoggio, consiglio, difesa; da parte della guida incoraggiamenti, lodi, rampogne, inviti a focalizzare l'attenzione su questo o quel fenomeno, l'invito a procedere, a non poltrire, accompagnato da accenni al tempo, misurabile (anche nelle viscere della terra) con il movimento degli astri, e/o metaforizzato tramite fenomeni naturali terreni.

Qui la tensione non solo si allenta, ma scompare. Ancor prima dell'apparizione di Matelda Dante avverte già, senza peraltro "catalogarli", fenomeni "aurei": la pura ed incontaminata gioia dei sensi non materiali (vista, udito, olfatto), la presenza di tutte le specie (pure di quelle ignote nella terre abitate) della flora paradisiaca che germoglia e frutta senza intervento umano, cioè senza lavoro (l'elemento animale, ad eccezione degli uccelli, è assente), l'invariabilità dell'atmosfera. La pace pure diventa finalmente un bene godibile dopo gli auguri dolorosi di essa nell'Inferno, e dopo i saluti sereni e fraterni del Purgatorio. All'inizio del viaggio Dante sapeva di dover "sostener la guerra / si del cammino e si de la pietate": la guerra è finita.

Quanto alla libertà dell'uomo dell'"aurea aetas" e del primo uomo innocente, inoltrandosi nella divina foresta Dante avverte la libertà del movimento nello spazio senza freni e paure, e una serena atemporalità primaverile, sottolineata dal lieve ed immutato fluire del vento che "tiene bordone" al canto degli uccelli. Egli si muove, guarda e gode ad libitum: nulla minaccia, nulla tenta, nulla inganna. L'uomo è a casa, in quella prima, creata per lui.

Nel suo sereno congedo Virgilio alludeva anche ad un'altra qualità del mutamento della situazione: "fuor se' de l'erte vie, fuor se' da l'arte" (XXVIII, 132). La fatica fisica del cammino, di cui viene sottolineata la dimensione verticale (erto), è terminata. L'"arte", rima equivoca ad "arte" (ars) significa "strette, anguste". L'essere angusto delle vie che conducevano in alto ha valore di strettezza sia fisica, sia psicologica. Il senso fisico si riferisce soprattutto al Purgatorio, valorizzando la ben nota metafora della strettezza e ripidità della via della virtù, mentre larga e comoda è la via dei diletti terreni e dei vizi.

La strettezza in senso psicologico va riferita soprattutto all'Inferno, la cui tristitia genera angoscia, restrictio.

Matelda, la bellissima e cortese donna che nell'Eden ha una funzione precisa, appare cogliendo fiori, ridendo e cantando. Spiegando a Dante la causa del suo riso (che oggi sarebbe sorriso: secondo il codice cortese del medioevo la donna onesta, valorosa e saggia ride sempre a bocca chiusa), dichiara: "in questo luogo eletto / a l'umana natura per suo nido, /.../, luce rende il salmo Delectasti" (XXVIII, 77-78). La delectatio è dilatatio cordis, opposta alla restrictio: il diletto recato all'uomo dall'opera del Signore fa ridere e cantare. "O iubelo del core, / che fai cantar d'amore!" esclama anche Jacopone.

Il carattere amoroso di Matelda viene espresso con insistenza: prima per i "sembianti", poi per gli occhi finalmente sollevati: "lume / sotto le ciglia di Venere, trafitta / dal figlio", infine ancora per il canto: "cantando come donna innamorata". Elementi dell'amore cortese, soprattutto stilnovistico, e cultura classica vi sono fusi, quest'ultima rafforzata anche dall'immagine di Proserpina. L'onesto riso, il volgersi con le piante strette insieme, i piccoli passi, l'"avallamento" degli occhi, il parlar dolce e cortese rappresentano insieme "l'ensenhamen" che la donna amata trasmette a chi l'ama e riverisce, e che arriva nella parola di Dante ad una affascinante sintesi. Il "catalogo" di Giacomino Pugliese nella sua "vituperatio mortis" che è insieme lode particolareggiata della sua donna; generi già trobadorici come la "primavera" e la "pastorella"; la celebrazione delle qualità etiche (umiltà, estinzione di superbia ed ira) e intellettive ("canoscenza"), arrivati tutti al più alto grado poetico soprattutto per la parola del Cavalcanti, più volte citato quasi verbatim ? sono qui tutti presenti (e sono stati ampiamente documentati ed analizzati da tutta una serie di illustri studiosi).[20]

Quelle qualità e quelle parole arrivano ad un risultato tutto particolare, in più sensi. Matelda mantiene la qualità primaverile nel senso del "prima verrà" giovanneo della domna di Cavalcanti in quanto precede Beatrice, ma la sua funzione sacerdotale, il suo pronto e cortese "insegnamento" anche per verba innesta nel contesto cortese-stilnovistico-cavalcantiano l'elemento sapienziale della Scrittura e l'elemento poetico della classicità, nel fluire "dolce" e "nuovo" di uno stile che qui s'impone come pienamente atto ad operare tale sintesi.

Nel senso giovanneo ed anselmiano, Dante fa suo il concetto dell'unità del Logos, del Verbo che è sostanza e parola insieme.[21] É pur vero, e Dante non tarderà mai a confessarlo, che la forza della parola poetica di "significar per verba" arriverà al suo limite (come Virgilio-Ragione al suo proprio). Ma qui non siamo ancora nel regno dell'ineffabile. Nella fase "adamica" Dante mostra il pieno vigore della sua parola poetica, non nascondendo, anzi mettendo in evidenza le sue basi: una tradizione volgare illustre, che qui risulta capace di inglobare la sacralità della Scrittura, della dottrina e della poesia classica. É l'apoteosi della poesia volgare, tota, il cui vertice dichiarato è il dolce stil nuovo (se intendiamo il termine esteso sulla linea Guinizzelli-Cavalcanti, e a maggior ragione se lo intendiamo riferito a Dante come vertice di quel vertice). Tutto ciò quasi consacrato dalla presenza dei "suoi" poeti classici.

La serie [Notaro]-Bonagiunta-[Guittone], poi Guinizzelli-Arnaut dimostrano varie fasi dell'iter poetico inteso come magistero. "Miglior fabro del parlar materno" vuol dire capacità di esprimere poeticamente argomenti anche astrusi in un linguaggio "difficile": ma la presenza di Cavalcanti proprio qui nell'Eden, se da un lato rivendica il titolo di maestro per un poeta in cui erano uniti "altezza d'ingegno", vigore drammatico e dolce stile -, dall'altro lato si pone come polemica con il Guido di Donna ma prega.

Matelda, donna "cavalcantiana" per molti versi, è la creatura più atta a dimostrare che si può, e anche come si può, risolvere il "nodo" più intricato della poesia cortese: la contraddittorietà tra amore per il Creatore e quello per la creatura. Nel discorso di Matelda la "difalta" del primo uomo non solo ridusse a una dolorosa brevità il suo soggiorno qui, ma "in pianto e in affanno / cambiò onesto riso e dolce gioco". Gioco è gioia, il joi dei trovatori (e degli italiani tra cui Giacomino Pugliese, vedi "gioco e riso"). Il "dolce gioco" vale pure per le dolcezze dell'amore della prima coppia umana, anche carnale come volle Dio (Gen 1, 1, 18), ma innocente, come innocente (onesto) fu il godimento di tutte le cose create appunto per essere godute.[22] La "difalta" produsse la rottura dell'integrità dell'amore perché sconvolgeva l'equilibrio tra ragione e volontà. In quest'ultima si rafforzava il carattere appetitivo immoderato (che "oltra misura - di natura - torna") che può travolgere la ragione, estinguendo la stabile signoria dell'uomo su se stesso. Esasperando il carattere oscuro e marziale di "tal volere", e rendendo l'intelletto, come sostanza a sé stante, inattingibile da esso, Cavalcanti stabili l'impossibilità di "convivenza pacifica" tra ragione e volontà-passione. "Vivere ne l'uomo è ragione usare" cosi Dante già nel Convivio, ma qui, sulle pendici del Purgatorio, egli deve apprendere la lezione dell'amore giusto anche come poeta. Superando e sublimando se stesso come poeta-filosofo ("Amor che ne la mente mi ragiona"), poeta stilnovista ("Donne ch'avete") e infine "poeta difficile" seguace di Arnaut anche nella "passada folor" arriva qui nell'Eden a "inglobare" e a superare, concettualmente e linguisticamente, anche il "primo amico".

Basandosi sul recuperato equilibrio amore-volontà riesce ad unire parola e sostanza, identificando i sensi sia palesi, sia latenti di questa realtà, usando con eleganza le conquiste culturali anche in senso diacronico. Dante risulta "sovrano" dell'espressione poetica - ed è forse questo il senso della "mitra" che si presenterà, sacralizzata, come "cappello" nel Paradiso. Cavalcanti pur amorevolmente, ma decisamente è battuto sul proprio terreno.

La distanza "Ellesponto" già stabilita tra Dante e Matelda s'allargherà e s'appofondirà quando, all'apparir di Beatrice, l'innocenza adamica generale cede posto al rimanente "vetus Adam" personale del viandante. Egli rimane orfano di quella presenza il cui valore viene ancor una volta evocata dalle rime "mamma - dramma - fiamma", già usate nella lode pronunciata da Stazio in Pg XXI, e il cui nome viene dolorosamente e anche sacralmente "ratterzato" dal figlio-discepolo. Il nome sarà pronunciato una quarta volta ormai da Beatrice, dopo aver chiamato, con straordinaria forza, Dante per nome, specificandogli senza possibile equivoco: "de te fabula narratur". Sei solo, e come tale devi affrontare quel che segue.

I termini dell'accusa dopo la diretta denominazione del colpevole si collocano in prima istanza nel quadro dell'apostrofe rivolta agli immortali testimoni, e sono allineati secondo una logica chiara e ferrea. La "spada" della giustizia, per cui Dante dovrà piangere, prima opera di "taglio" perché non in discorso diretto a Dante. Prima viene specificato quello che è già stato citato: ad opera degli astri e per la "larga ploia" della Grazia Dante ebbe i doni per divenire interamente giusto nella sua vita terrena. Ma v'è di più: gli è stata elargita "l'esperienza Beatrice", l'incarnazione della grazia operante, la cui natura celeste ben è stata avvertita da Dante nella Vita nuova, quando parlava di "maraviglia in atto che procede / d'un'anima che fin quassù risplende". Ma quando il volto e gli occhi terreni scomparvero, Dante non seppe seguire la via della più alta e vera natura di Beatrice, e quindi subentrarono e s'imposero le "immagini di ben... false", volgendo in lui la carità e la giustizia in cupidità (intesa in vari sensi) che intaccava la sua stessa giustizia, il suo retto giudizio sulla falsità di quelle immagini, causando lo stato di "sonno" in cui Dante smarri la diritta via, ed entrò, non sapendo "ben dir come", nell'estremo pericolo della selva oscura. Solo il diretto intervento della grazia, mossa da carità-amore, impiegando l'aiuto "di colui che l'ha qua sù condotto", potè salvarlo.

Nella seconda fase la spada della giustizia gli viene rivolta "di punta", in un discorso ormai rivolto a lui personalmente. Prima gli deve essere strappato il difficile "si", e poi l'ancor più difficile specificazione del come e perché dello smarrimento, della perdita del retto amore e della vera giustizia. Solo in virtù di tale atto la "spada" cessa di essere tagliente. Fin qua, il carattere sacramentale della confessione potrebbe essere valido per qualsiasi peccatore. Ma, a beneficio di Dante, Beatrice va oltre. Reiterando ed amplificando il senso personale a solo vantaggio di Dante del Dono-Beatrice, viene additato anche come il beneficiato avrebbe dovuto agire, mantenendo operante in sé stesso la vera realtà di lei, quella "che non era più tale". Ora, tale reiteratio del motivo è rampogna si, ma ne prevale il senso di inocraggiamento, rafforzamento della virtù: che tu, Dante, le altre volte, "udendo le serene, sii più forte".

Il motivo "sirena", come già "le presenti cose", (specificate nella confessione: "le presenti cose / col falso lor piacer volser li miei passi" (Pg 34-35) illuminano interamente il senso del sogno sulla "femmina balba".

Tra le varie interpretazioni sul senso delle figure della "femmina balba" e della "donna santa e presta" nel Pg XIX la più convincente mi pare quella di G. Paparelli.[23] La femmina balba é immagine del falso bene che nell'uomo disturba il retto giudizio, trasformando in lui il retto amore in cupidità peccaminosa. Lei si definisce "dolce serena" e promette pieno appagamento a chi "s'ausa" con lei. La "donna santa e presta" è la rettitudine-giustizia, che richiama la recta ratio al suo dovere: svelare la falsa bellezza, scoprendone l'abominazione del ventre che, nella simbologia delle membra umane, è immagine di cupidità, delle voglie basse. Non a caso la scena si colloca tra il discorso di Virgilio sul libero arbitrio, e l'ingresso nel girone degli avari e prodighi.

Senonché, la scena ha una sua curiosità: Dante ha visto l'originale e vero aspetto della femmina, carica di tutte le possibili bruttezze e deformazioni, eppure, vedendone la metamorfosi in donna bellissima, e udendo il suo canto, confessa: "con pena / da lei avrei mio intento rivolto" (Pg XIX, 17-18).

La seduzione dell'immagine, pur avendo visto il vero aspetto dell'inganno, dimostra un'altra volta l'insufficienza della ragione i se stessa. Virgilio, la Ragione, agi "con li occhi fitti pur in quella onesta": solo guidata dalla giustizia, la ragione funziona rettamente, e mette in moto la volontà, amore per il vero bene.

Tutta la scena si richiama allo "smarrimento" iniziale del poema. Qui, salendo il sacro monte, Dante deve ricevere un monito retrospettivo e preannunciatore insieme, un monito che non solo richiama al proprio dovere la recta ratio, ma pone anche la questione della maturità.

L'anima di Dante non era più quella "semplicetta che sa nulla" (Pg XVI, 88), ma deviò matura, e già ricca del dono-Beatrice (perció la reiterazione del motivo nel discorso edenico della gentilissima). E Beatrice chiama in causa la maturità come aggravante: "Novo augelletto due o tre aspetta; / ma dinanzi da li occhi d'i pennuti / rete si spiega indarno o si saetta" (Pg XXXI, 61-63). Ancor più "velenosa" sarà l'allusione alla barba, e il suo senso è chiaramente percepito. Ma "alzar la barba" vuol anche dire, in una seconda e più importante istanza, guardare direttamente a Beatrice che ora trasmette non solo "d'antico amor ... gran potenza", ma rende palese quella sua vera realtà di cui poc'anzi ha parlato.

La nuova realtà di Beatrice, pur distante, pur velata, fa pienamente e fulmineamente sentire e capire a Dante quale via avesse smarrito, avendo non solo la potestá di seguire quella retta, ma anche l'ausilio della grazia già in atto quando era operante in corpo, resa però più forte quando non vi era più. Quanto la nuova qualità fosse più affascinante, più travolgente, Dante lo capisce solo ora. Ma subentrò allora la forza allettante delle "cose presenti": la nuova, più potente, più attraente bellezza di Beatrice perdette la comunicazione con Dante per colpa del destinatario, a cui le cose presenti in terra, e anche nuove, s'imposero con i loro messaggi più tangibili, più conformi all'appetito intellettivo di Dante: non sempre ingiuste in sé, ma ingannevoli in quanto capaci di rafforzare l'autosufficienza delle sue forze ragionative e delle proprie scelte (amori, studi, impegni di vario genere) non giuste.

Questa fulminea comprensione investe tutto l'essere di Dante: loghistikon, pathétikon ed oréktikon. Percezione intellettiva, sconvolgimento passionale causano la cessazione del funzionamento della parte appetitivo-vegetativa dell'anima. Perdere i sensi ha senso di varco, di soglia, di trasformazione. Dante perde i sensi perché la visione, anche imperfetta, del vero essere di Beatrice causa una morte temporanea.

Diventa realtà quello che le atterrite potenze vitali ed intellettive gridarono in Dante fanciullo alla prima apparizione di Beatrice fanciulla nella Vita nuova.

Senonché qui, alla sponda del Leté, la visione vera causa la morte del vetus Adam in Dante. Se il peccato è morte - insegna Anselmo -, ed insieme la perdita della rettitudine-giustizia, il saper liberarsene equivale a resurrezione.[24] Dante risorge, come risorse Stazio.

L'immersione nel Leté gli viene intimata appena riavuti i sensi: la remissione è istantanea, come istantaneo e cataclismatico era il pentimento.

Incipit vita nova un'altra volta, ma questa è una totale renovatio. Dante emerge dalle onde già novus Adam, ad opera della Redenzione in quanto uomo, parte dell'umanità rendenta tota, ma potenziato, in più, dalla stessa grazia che l'ha personalmente salvato.

La salutifera operazione di quella realtà velata è il preludio alla graduale illuminazione la cui guida sarà Beatrice, e che vedrà Dante quasi un Semelé "negativo"[25] a cui "programmaticamente" sarà fatta più e più forte la vista. Beatrice, quasi "temporeggiando" la sua bellezza paradisiaca, la luminosità degli occhi e del riso, preparerà la visione beatifica del "sommo Giove", visione che non annienterà, ma conserverà incolume la vita e l'umanità di Dante.

Nel "terreno di mezzo" tra Leté ed Eunoé deve peró verificarsi anche la rottura di quella unità sostanza-parola che nella fase edenica di Dante, alter Adam, era ancora possibile. Il fatto verrà evidenziato da Beatrice che prima mostrerà per speculum (gli occhi) la doppia natura di Cristo, e poi, parlando volutamente in aenigmate, darà ad intendere al suo fedele che la "vostra dottrina" non solo è imperfetta, ma che l' "habitus" di vedere e considerare solo secondo essa, costitisce una incrustatio che preclude la via conoscitiva delle più alte verità. Ancora, non il sapere viene colpito, ma gli schemi, le strutture chiuse e soprattutto l'orgoglio della sola sua sufficienza, che non solo è peccato, ma anche un limite della conoscenza.

L'imperfezione dell'intendimento necessariamente coinvolge la parola poetica impegnata a ritrarre cose il cui senso profondo non è, o è imperfettamente compreso. Perció l'intimazione "Tu scrivi" può per ora riferirsi solo alla realtà percepibile: le parole saranno come il bastone ornato di palma dei pellegrini ("palmieri"), la cui funzione segnica è di far vedere "Gerusalemme".

La città nella sua realtà storica e topografica è la vecchia legge e il vetus Adam a cui il Veglio di Creta volge le spalle. Il Veglio "Roma guarda come suo speglio" (If XIV, 105). Roma è figura della nuova Gerusalemme, e anche figura del novus Adam. Tra "morte-schiavitù" e "renovatio-libertà" sta il Veglio: e se la Roma terrestre gli è specchio, cioè immagine imperfetta, allora la realtà vera della testa aurea non è terrena, ed è solo in parte edenica. La superiore realtà di quella testa, come anche la superiore realtà dell'aurea aetas si troverà in Paradiso. Sarà la Gerusalemme celeste che è insieme la Roma celeste, "quella Roma onde Cristo è romano" (Pg XXXII, 102).

Letta alla rovescia, cioè in salita, il Veglio ha senso escatalogico, nel senso dell'inevitabile cammino (e la certezza è più volte accentuata) verso un ritorno della giustizia in terra; mentre per Dante "cive" è un ritorno dell'uomo "a cá" dove abita la Giustizia divina.

Lábjegyzet:
[1] Dai numerosi commenti e lecturae indico: Th. SPOERRI, Introduzione alla DC, Milano, Mursia, 1985, pp. 169, 172-174; G. PETROCCHI, Beatrice a dieci anni dall'esilio, in L'ultima dea, Roma, Bonacci, 1977, pp. 121-136; A. VALLONE, Il peccato e la pena, in Studi su Dante medievale, Firenze, Olschki, 1965, pp. 113-123; B. NARDI, Il mito dell'Eden, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1930; P. SABBATINO, L'Eden della nuova poesia (Purgatorio XXVII-XXXIII), nel vol. omonimo, Firenze, Olschki, 1991, pp. 45-124.
[2] Sulla figura v. la voce Il Veglio di Creta (G. REGGIO), in Enciclopedia Dantesca, dir. da U. BOSCO, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970-1977, 6 voll. L'articolo di REGGIO nel vol. V, pp. 901-903.
[3] S. AGOSTINO, Civ. Dei XV, 9; Riccardo di S. VITTORE, Eruditione hominis interioris libri III, occasione accepta ex Somnio Nabucodonosor apud Danielem. Tra le interpretazioni moderne rimane importante: G. BUSNELLI, La concezione dantesca del Veglio di Creta, in Appendice all'Etica Nicomachea e l'ordinamento morale dell'Inferno di Dante, Bologna 1907. V. anche la lettura di U. BOSCO del canto XIV dell"If, in La Divina Commedia, a c. di U. BOSCO e G. REGGIO, Firenze, Le Monnier, 19827, vol. I: L'Inferno
[4] V. la voce Anselmo d'Aosta, santo (F.S. SCHMITT), in ED I, pp. 293-294, In Anselmo: sul peccato come debito a cui l'uomo non può soddisfare, in DCV (De conceptu virginali et de originali peccato), 17; sulla soddisfazione vicaria in CDH (Cur Deus homo?), I, 1, 7: I; I, 11. - II, 15. ? Durante la stesura del recente articolo è uscito in ungherese il Io vol. delle opere filosofiche di Sant'Anselmo (Canterburyi Szent Anzelm, Filozófiai és teológiai művek I. fordította, a bevezető tanulmányokat és a jegyzeteket írta DÉR KATALIN, Budapest, Osiris, 2001). Le eruditissime prefazioni e note di Katalin DÉR danno le fondamentali notizie anche sulle altre opere anselmiane. Nel volume figurano: Monologion; Proslogion; Il libro di Gaunilo; Risposta a Gaunilo; DG; DV; DLA; DCD. - Sull'importanza di Anselmo nella grande svolta "moderna" del Medio Evo, v. É. GILSON, Le Moyen Âge come "saeculum modernum", in Concetto, miti e immagini del Medio Evo, a c. di V. BRANCA, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 1-10. "Le premier mouvement qui annonce un âge nouveau est celui des Dialecticiens du XIe siècle. /.../ Nous avons peine aujourd'hui à nous représenter un maître que ne saurait que la théologie traditionelle de saint Augustin, plus la logique. Ce fut pourtant le cas de saint Anselme, qui se flattait de n'avoir ensiegné rien qui ne l'eűt été avant lui par saint Augustin, et dont le style intellectuel ressemble pourtant si peu a celui de son modèle. C'est que, avec Anselme, la dialectica a remplacé l'eloquentia comme type et idéal du savoir." (p.3) ? Per tale motivo ? e posso sbagliare ? penso che la forma mentis di Dante, nella sua originalità, vada fatta risalire anche a quell'archetipo dello sforzo ragionativo nell'avvicinare le ultime verità che è impersonato da Anselmo. Infatti Dante, come poeta, dovette ripercorrere le vie conoscitive anche in senso diacronico, per arrivare a quella mirabile sintesi che è solo sua.
[5] Padoan è citato in DC (BOSCO-REGGIO), Pg, p. 370. ? V. ancora ID, Teseo "figura Redemptoris" e il cristianesimo di Stazio, in Il pio Enea, l'empio Ulisse, Ravenna, Longo, 1977, pp. 125-171.
[6] Cfr. Virg. Aen. III 104-105, VIII 324-325; Juv. Sat. VI 1-2; Ovid. Metam. I 89 sgg.
[7] Virgilio parla della "virgo" che è Astrea, dea della Giustizia, e Dante trasforma la citazione usando il senso morale-anagogico del personaggio mitologico.
[8] Sulla rettitudine-giustizia v. S. AGOSTINO, Conf. XII, XXIII, 32; S. ANSELMO, De Veritate (DV) 2-7; sulla rettitudine del volere, De libertate arbitrii (DLA), 3.
[9] Il locus communis teologico è citato in P. BELLINI, Respublica sub Deo, Firenze, Le Monnier, 19886, p. 7.
[10] Il libero arbitrio come libertà di volere il bene: in Anselmo DV, 6, 7.
[11] V. G. CAVALCANTI, Rime... a c. di D. DE ROBERTIS, Roma, Salerno, 1999, nella nota introduttiva al n. LXXXIII, p. 383. - Sulla probabilità della stesura di Donna me prega dopo uno o due anni dopo la probabile stesura della Vita nuova, v. E. MALATO, Dante, Roma, Salerno, 1999, p. 127. - Sulla questione v. anche il saggio di ID, Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la Vita nuova e il "disdegno" di Guido, Roma, Salerno, 1997.
[12] V. la voce Cavalcanti, Guido (M. MARTI) in ED, vol. I. pp. 891-896. Tra i saggi qui ricordo: I. BALDELLI, Dante e i poeti fiorentini del '200, Firenze, Le Monnier, 1969; G. CONTINI, Cavalcanti in Dante, in Un'idea di Dante, Torino, Einaudi, 19762, pp. 143-157; d'A. S. AVALLE, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977.
[13] Conv.
IV. cap, XII, XIII. "E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio sua perfezione non perde, come le maladette ricchezze" (XIII, 9).
[14] G. PETROCCHI, L'Inferno di Dante, Milano, Rizzoli, 1978 (La guida di Virgilio, pp. 87-99).
[15] La sparizione di Virgilio e l'apparizione di Beatrice equivale anche alla fine del cammino "Dante-Enea", e all'inizio di quello "Dante-Paolo", cfr. SABBATINO, op. cit. p. 111.
[16] S. AGOSTINO, Conf. VIII, 9, 21-24 (la volontà è prigioniera e imperfetta, esplicazione dell'epistola di S. Paolo ai Romani); S. Anselmo, DLA lo (il peccatore è nella servitù del peccato): ibid, 11 (tale servitù non toglie la libertà del volere; distinzione fra instrumenta volendi e usus volendi: la servitù del peccato ci toglie quest'ultimo).
[17] V. J. FRECCERO, The Firm Foot on a Journey without Guide, in Dante. The Poetics of Conversion, Cambridge, Massachusets, Harvard Univ. Press, 1986, pp. 29-54, con ampi riferimenti a testi soprattutto agostiniani.
[18] S. TOMMASO, Summa theol., III, 90, 2 ("contritio cordis, confessio oris et satisfactio operis").
[19] S. ANSELMO, Proslogion, praefatio
[20] Dai numerosi saggi su Dante e le poesie volgari: S. SANTANGELO, Dante e i trovatori provenzali, Catania 1921; U. BOSCO, Il nuovo stile della poesia dugentesca secondo Dante, in Contributi e letture, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1966, pp. 29-54; G. GORNI, G. Guinizzelli e il verbo d"amore, in Il nodo della lingua e il verbo d'amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze, Olschki, 1981, pp. 23-45; T. BAROLINI, Dante's Poets. Textuality and Truth in the Comedy, Ithaca, Cornell Univ. Press, 1984; ID, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della Divina Commedia, Torino, Bollati Berlinghieri, 1993.
[21] L'unità perfetta di sostanza e parola è il solo Dio. Anselmo stabilisce però diversi gradi, anche in base alla rettitudine-giustizia, dell'unità avvicinabile in certa misura anche dalla parola umana (DV 2-7). Qui ipotizzo solo una unità possibile nell'Eden, "locus hominis", "locus conveniens habitationi humanae" (S. Tommaso, Summa theol., I, 102) per il poeta "alter Adam". Alla dimensione teologica si aggiunge quella biblica e poetica. Il primo uomo diede nome alle creature della terra; i poeti antichi immaginarono il luogo; il poeta cristiano lo vede come realtà.
[22] Sul godimento reciproco, congiunto e unito di anima e corpo v. S. Agostino, De Civ. Dei, XIV, II, 2: "Vivebat itaque homo secundum Deum in Paradiso et corporali et spiritali /.../ Erat plane propter utrumque". Prima del peccato l'uomo "fuerat etiam carne spiritalis", ma avendo peccato "fierat etiam mente carnalis". - Sulla natura innocente dell'Eden, v. A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, rist. anast., Bologna, Forni, 1965.
[23] G. PAPARELLI, La femmina balba e "la donna santa e presta", in Ideologia e poesia di Dante, Firenze, Olschki, 1975, pp. 200-221.
[24] La liberazione dal peccato restituisce all'uomo la libertà dell'arbitrio. Dio, nel restituire all'uomo la perduta rettitudine, opera un miracolo più grande della restituzione della vita ad un morto: v. S. ANSELMO, DLA 10.
[25] V. Par XXI, 4-6: "... S'io ridessi," / mi cominciò, "tu faresti quale / fu Semelé quando di cener fessi."